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Complessità di sistema e azioni di governance locali: quando le politiche migratorie incontrano integrazione e lavoro. Intervista a Stefania Congia

(In collaborazione con Toscana Notizie - Agenzia di informazione della giunta regionale)

I temi dell’immigrazione e del lavoro rimangono al centro della collaborazione progettuale che lega il Ministero, la Regione Toscana e Anci Toscana. Come specifica infatti Stefania Congia, Dirigente alle politiche di integrazione sociale e lavorativa dei migranti e tutela dei minori stranieri del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, “il lavoro è lo strumento principe per l’empowerment dei migranti e rappresenta una possibilità di contribuire alla comunità che accoglie. Significa caratterizzarsi come soggetti che contribuiscono al benessere collettivo nei territori invece che come semplici destinatari di assistenza”. 

In Regione aumentano i cittadini stranieri residenti a fronte di un forte radicamento territoriale, che caratterizza la Toscana come una delle grandi regioni dell’immigrazione. In questo contesto locale dobbiamo calare la questione dell’occupazione dei cittadini stranieri…
 
La questione è che in Italia abbiamo uno squilibrio enorme sui tassi di residenza cioè i cittadini stranieri sono concentrati al centro nord, nord-est e nord-ovest perché ovviamente le comunità straniere si sono consolidate laddove il mercato del lavoro permetteva un inserimento lavorativo in diversi ambiti e su diversi livelli. Esattamente come, a livello locale, è successo a Prato con l’insediamento dei cittadini cinesi che si sono dedicati al lavoro nel settore dei tessuti e sartoriale, o come è successo a Pistoia ai cittadini stranieri che esportano miele italiano in tutto il mondo. Stiamo parlando di comparti e settori che hanno portato molto sviluppo, e grazie a questi si è consolidato questo tipo di immigrazione che genera ricongiungimenti familiari, e quindi un numero elevato di ingressi ogni anno. Inoltre, la Regione ha risposto al processo di distribuzione delle presenze dei cittadini stranieri attraverso un’accoglienza diffusa che sicuramente incentiva il processo di radicamento territoriale. In generale, si pone ora come ovvia la questione che i milioni di stranieri che abbiamo sul territorio nazionale genereranno altri stranieri a prescindere dai flussi migratori di ingresso e che, in tal senso, il decreto flussi per lavoro rimane uno strumento da ripensare seriamente. 
 
Nonostante le caratteristiche di un’immigrazione consolidata nel tempo il lavoro degli stranieri rimane complementare a quello degli italiani, confinato in alcuni comparti a bassa qualificazione. Qual è la situazione a suo parere, e che equilibrio bisogna cercare a livello locale?
 
Su questo pubblichiamo annualmente, come Direzione Generale Lavoro e Politiche dell’Integrazione, un report dedicato al mercato del lavoro all’interno del quale sono analizzate le tendenze e inseriti i dati disaggregati anche a livello regionale. Ci sono vari trend che si confermano in questi anni: una bassa qualificazione della forza lavoro straniera, una retribuzione mediamente minore rispetto agli italiani e un tasso sia di occupazione che disoccupazione più elevato rispetto agli italiani. L’imprenditoria straniera ha, infatti, un tasso di crescita e ascesa enorme ma contemporaneamente ha un tasso di fragilità e di debolezza importanti. Bisogna, dunque, ragionare sulle misure di sostegno al reddito, rivedere il sistema complessivo degli ingressi per motivi di lavoro ripensando la programmazione triennale ma è anche vero che, di fronte a tale situazione, bisogna cercare di aiutare le persone più fragili che già si trovano sui territori. Si perde, infatti, con molta facilità lo status di regolarità e rimane dunque fondamentale tutelare i nuclei familiari: abbiamo assistito in questi anni al fallimento del progetto migratorio di persone che erano in Italia da decine di anni. Si tratta di famiglie che stanno lasciando questo paese dopo che i figli sono nati e cresciuti qui ed hanno frequentato le nostre scuole. Il giusto equilibrio si basa su quei flussi di ingresso che saranno sempre caratterizzati da alcuni settori di lavoro, che vanno ripensati.
 
Un esempio?
 
Per esempio quello della cura alla persona, svolto in favore di anziani e bambini in modo irregolare e che va riqualificato. Intervenire, a livello locale, organizzando in modo più civile questo tipo di lavoro può avere un grande apporto anche per la comunità ospitante, e agire sulla formazione in modo adeguato aiuta enormemente il sistema di assistenza socio sanitaria dei territori.
 
Sempre parlando di radicamento territoriale, la componente delle seconde generazioni diventa fondamentale anche a livello di stabilità sociale. Eppure sono proprio questi ragazzi che incontrano più barriere all’accesso nel mondo del lavoro. Ci sono interventi mirati?
 
Abbiamo curato e accompagnato una rete di associazioni -  CoNNGI - che mette insieme più di 30 associazioni con - finalmente - una rappresentatività unitaria sulle nuove generazioni. Si sono costituite in APS e hanno, in tal modo, acquisito la possibilità di partecipare a tutti i tavoli inter-istituzionali senza bisogno che qualcuno parli a nome loro. I giovani stranieri presenti nel circuito scolastico italiano - più di 800.000 – sono caratterizzati da due differenze rispetto ai coetanei italiani: un maggior ritardo scolastico e un tasso di dispersione scolastica  più elevato. Chiaramente dobbiamo intervenire su questo. Allo stesso tempo però una recente indagine OCSE mette in luce che lo strumento dell’istruzione per le nuove generazioni in Italia non è un volano di inclusione lavorativa più qualificata. Significa che l’istruzione in Italia non sta funzionando come ascensore sociale, così come accade in altri paesi. L’ascensore sociale poi è venuto meno anche per i ragazzi italiani, e quindi dobbiamo intervenire in un’ottica di universalità degli interventi.
 
A proposito di universalità degli interventi, la Nota IRPET sull’accesso al welfare per gli stranieri in Toscana evidenzia come abbiano meno acceso ai sistemi contributivi mentre utilizzano di più le misure di contrasto alla povertà. Come si può garantire maggiore parità di diritti?
 
Su questo tema c’è una grande discussione in corso, su tutte le misure che abbiamo fatto one shot e anche sulle misure universalistiche. Il tema fondamentale è che la residenza e la stabilità nel territorio siano l’elemento da considerare per l’accesso ad una serie di misure di assistenza e di assistenza socio-sanitaria. La misura per acceder al reddito di cittadinanza, tanto per fare un esempio, prevede il tempo spropositato di 10 anni di residenza, il permesso di lungo soggiorno e una certificazione dai paesi di origine, che in molti casi non è possibile avere. I paesi che non sono in grado di fornire la certificazione avrebbero dovuto essere inserite già a giugno in un decreto interministeriale tra Ministero degli Esteri e Ministero del Lavoro. Di fatto è successo che, nell’attesa, l’INPS a luglio ha sospeso con una circolare l’accesso e la lavorazione delle pratiche relative al reddito di cittadinanza dei cittadini stranieri creando un grosso risparmio di spesa da un certo punto di vista ma dall’altra parte un potenziale contenzioso perché si stanno escludendo delle persone [il decreto in questione è stato approvato di recente, NdR]. L’accesso in base al reddito va naturalmente a incidere in maniera percentualmente maggiore fra gli stranieri e, detto questo, rimane di tutta evidenza che non possiamo discriminare in base alla cittadinanza e agli anni di residenza.
 
Il reddito di cittadinanza è proprio una di quelle misure non contributive con più barriere di accesso…
 
Ma la Corte Costituzionale e la Corte di Giustizia Europea si sono pronunciate proprio su questo. Quando la misura è volta al sostegno di una situazione legata alla dignità minima della persona non può essere tarata su residenza o reddito. E tutti i tentativi che sono stati fatti di esclusione sono stati via via smontati dalla Corte di Lussemburgo.

 

Foto tratta da: flickr.com

 

 

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