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Immigrazione e occupazione, Di Benedetto, CNA Toscana: "l’inclusione lavorativa dei cittadini stranieri è una priorità strategica per la nostra regione"

(In collaborazione con Toscana Notizie - Agenzia di informazione della giunta regionale)

Come fare impresa e creare sviluppo in uno scenario regionale che cambia, che riesca a stare al passo coi tempi e che possa trarre un beneficio strutturale dai cittadini stranieri che scelgono di vivere in Toscana? Questo è un argomento complesso e sfaccettato, che Regione Toscana ha deciso di mettere al centro delle proprie riflessioni realizzando un convegno di approfondimento, promuovendo la nascita dell’Osservatorio Regionale sull’Immigrazione, e dedicando al tema numerosi articoli. Dopo l’intervista rilasciata da Stefano Casini Benvenuti per la newsletter del mese di giugno, oggi #AccoglienzaToscana torna sul tema insieme ad Andrea Di Benedetto, Presidente di CNA Toscana e ospite del convegno di inaugurazione dell’Osservatorio. 


Tra i vari aspetti di complessità che metteva in luce anche nel suo intervento al convegno, è primario quello di precarietà occupazionale per chi lavora in imprese che spesso costringono i lavoratori a lasciare il lavoro dipendente per altre forme di lavoro  flessibile (come le molte partita Iva). Ma c’è anche l’altra faccia della medaglia, con imprese che crescono. Qual è la fotografia che ci può rendere della Regione?

Ci sono sicuramente imprese che nascono molto spesso da persone che, da poco in Italia, avendo poche relazioni sociali sul territorio, partono da situazioni lavorative quasi sempre come dipendenti. Dal momento che hanno diverse competenze pregresse sviluppate nel proprio paese di origine e acquisendone di nuove, riescono a dare continuità alle proprie energie ed a incanalarle nella proiezione verso il futuro. Così diversi lavoratori stranieri tendono a mettersi in proprio e a crescere.  

In quali settori?

Nell’edilizia questo avviene con numeri importanti. Si parla infatti del 12% di aziende del settore gestite da stranieri, mentre quasi il 60% dei dipendenti del settore sono di origine straniera. Stiamo parlando, dunque, di un settore importante retto da cittadini stranieri. Ma il fenomeno è importante anche in agricoltura, nel tessile, nell’industria della pelle e in alcune nicchie più piccole come quella dei ceramisti nel settore dell’artigianato artistico.

Questo perché in Toscana rimangono imprese e botteghe artigiane, che però rappresentano anche attività che non sempre riescono a crescere… 

Sì esattamente, le botteghe e le imprese artigiane rappresentano una tradizione che rischiamo di perdere e che invece è un fattore di grande attrattività per gli stranieri. In molti vengono per imparare a lavorare nei settori della moda, della ceramica, dell’intaglio del legno e così via, perché rappresentiamo ancora un’eccellenza internazionale nel panorama  artistico e della manifattura di alta gamma. In questo settore molti rimangono freelance e lavorano come singoli, molti altri dimostrano una capacità imprenditoriale notevole. Per esempio mi viene in mente un imprenditore straniero nel senese che ora ha una azienda con 48 dipendenti. Non parliamo, dunque, di numeri marginali anche dal punto di vista dell’impatto economico occupazionale.

In un paese come il nostro, a scarsa propulsione imprenditoriale, ci sono margini di sviluppo per chi si vuole mettere in proprio? E in questo processo le associazioni di categoria possono giocare un ruolo importante?

A mio avviso sì, perché ancora non è un fenomeno così importante ma può diventarlo -  cioè il passaggio da dipendente a imprenditore è ancora molto raro. Per far fronte a questa situazione, un percorso di accompagnamento da partire dalle associazioni di categoria - perché certamente abbiamo un ruolo di prima linea -  insieme alle istituzioni e alla regione può assumere un senso economico importante. Siamo in una situazione in cui  la natalità delle imprese artigiane, infatti, è in negativo: da 10 anni muoiono più imprese rispetto a quante ne nascono. In questo contesto, portare all’imprenditoria un numero di persone più giovani di noi anagraficamente, con una energia vitale maggiore e spesso con delle grandi competenze pregresse o acquisite in Italia, è un’enorme opportunità per il territorio. 

Quali sono i rischi se non si coglie questa opportunità?

Il rischio per il territorio è elevatissimo, perché non abbiamo un cambio imprenditoriale adeguato: competenze e mestieri e si perdono, tante aziende chiudono per mancanza di successione. A questo si aggiunge anche il racconto del mondo dell’artigianato che abbiamo fatto in quest’ultimo periodo, privandolo di appeal. Negli ultimi 30 anni, i lavoratori del settore sono passati da attività considerate il fiore all’occhiello del paese, fino ad arrivare alla consuetudine di vederle mortificate. In tal senso gli interessi si sono concentrati ad inseguire prima l’industria, poi il terziario, infine la finanza. In questo modo, si è finito col “bruciare” due generazioni di artigiani, di cittadini che non hanno valutato l'opzione di lavorare nell’artigianato perché non era cool. Così se 100 anni fa poteva essere interessante professionalizzarsi per realizzare scarpe, ora la scelta di questo lavoro diventa quasi imbarazzante. Questa percezione, che sembra una banalità, pesa moltissimo a livello economico. Solo ultimamente, si sta recuperando il concetto di artigianato facendo un giro lunghissimo e in modo paradossale, tanto che ora i professionisti nel digitale si chiamano makers ma sono artigiani a tutti gli effetti.

Siamo dunque riusciti a recuperarlo in qualche modo…

Direi di sì, perché quello che sta avvenendo è che con il digitale e la rete, uno degli effetti collaterali assolutamente non previsti è stato che l’artigianato è tornato di moda con i makers. Così gli elettronici, chi fa automazioni ma anche l’artigianato in senso lato, declinato sui primi mestieri, cioè anche il panettiere che prende le ordinazioni con l’app, si adatta ad una customizzazione estrema. È un mercato che sta esplodendo e che coinvolge anche l’artigianato tradizionale.
E questo non si discosta dal tema originale di cui stavamo parlando poiché, se ci sono opportunità lavorative nell’artigianato, finalmente redivivo anche nell’immaginario collettivo, e se esiste un capitale immateriale di competenze, gli imprenditori immigrati rappresentano un asset fondamentale. Senza dimenticare che, di norma, non abbiamo abbastanza imprenditori italiani che lavorano in questo settore. Mi viene da dire non abbastanza italiani  in valore assoluto, nel senso, che essendo un paese a bassa natalità, dobbiamo trovare energie giovani per trasmettere queste competenze. Ovviamente non solo straniere. Abbiamo l’opportunità di avere del capitale umano in un paese che lo sta disperdendo. Serve, quindi, un modo sensato di gestire il flusso migratorio per strutturarlo attraverso la filiera di percorsi di acquisizione di competenze e di inserimento nel tessuto economico.

Ci vuole, in tal senso, un ampio progetto di formazione?

Sicuramente un programma di formazione e sviluppo di competenze che faccia riferimento anche alla competenza artigiana. Abbiamo 200 maestri artigiani certificati che sempre più spesso hanno allievi non italiani, in percentuale molto alta per il tessuto economico.

Un’opportunità che diventa una necessità per il sistema economico.

Esattamente. Non trasformiamola in un problema, perché è chiaro che se questo flusso di persone - spesso molto competenti e spesso molto motivate e disposte a imparare - lo abbandoniamo a se stesso, abbiamo creato un doppio disastro.

Quello che lei sta dicendo può diventare una priorità strategica per la Toscana?

Certamente, così come lo deve diventare per l’Italia. La Toscana ha qualche possibilità in più perché ha, insieme a Emilia Romagna, Veneto e Lombardia una carenza da colmare in alcuni ambiti. Quello che si racconta anche poco è che in alcuni settori, come nelle aziende che producono macchinari in campo meccanico e tessile, manca il personale formato. Parlo, per esempio, di tutti quei bisogni formativi che si colmano con i corsi ITS. Ecco perché la formazione rimane strategica: non serve il laureato che progetta la macchina o l’operaio generico serve chi ha un corso post-diploma di formazione specifica.

In estrema sintesi stiamo parlando di possibilità di crescita economica per la Toscana, e per chi arriva la possibilità di imparare professioni che non si possono imparare da nessun’altra parte del mondo?

È un’emergenza strategica che esiste e che passa, dunque, assolutamente attraverso i processi e i programmi di formazione. Solo in questo modo si può far fronte a un job mismatch altissimo: è vero che rimane la disoccupazione, ma è altrettanto vero che ci sono molte offerte di occupazione non soddisfatte.

Domanda e offerta di lavoro non si incontrano, e le imprese continuano a chiudere per mancanza di successione…

Va in pensione l’artigiano, il figlio vuole fare un altro lavoro e l’impresa chiude. Come associazione di categoria ci stiamo chiedendo con quali percorsi, non in linea di sangue, si possa rivedere questo meccanismo che impatta molto sul sistema  economico toscano ma anche sul fenomeno migratorio. Infatti il flusso migratorio rappresenta un potenziale insoddisfatto in questo momento e che può essere recepito per risolvere il problema.

Anche per uscire dalla narrazione stereotipata con cui si descrive spesso l’orda degli immigrati che vengono a rubarci il lavoro, ci fa un esempio di una storia a rischio di mancata successione e che ha visto il trasmettersi di competenze importanti non in linea di sangue?


Faccio l’esempio di quello che viene chiamato ”innestino”, una competenza botanica ma di fatto artigianale. Un contadino in diversi anni è, infatti, diventato esperto sui tagli per l’innesto e la sua attività non si perderà grazie alla successione di due cittadini magrebini che per diverso tempo lo hanno seguito e hanno imparato. Una situazione da favola se si vuole, ma reale e paradigmatica di quello che stiamo raccontando - cioè di come il saper fare, nel senso più tradizionale del realizzare le cose a mano, è quanto non possiamo permetterci di perdere. Seconda storia è quella di un cittadino inglese che è venuto in Toscana per un corso di ceramica…

Stiamo parlando del racconto di un extracomunitario che esula molto dalle solite logiche narrative…

Esatto, tra le sfaccettature del fenomeno c’è anche la storia di chi, come lui, è venuto in Toscana a studiare ceramica, perché qui voleva imparare un’eccellenza e ora ha una vera azienda che dà lavoro a 7 persone a Sesto Fiorentino. Ma le storie sono davvero diverse. Posso dire come, per esempio, nel grande mondo dell’edilizia, insieme al tessile determinante per il PIL toscano e in crisi di risorse umane, si incardina la storia personale e lavorativa di un cittadino albanese, sbarcato a Brindisi e che, a Pistoia, ora ha una azienda con 6 dipendenti.
Sono tre storie che non esauriscono tutta la complessità del fenomeno ma aiutano a dettagliare la fotografia della regione che mi è stata chiesta quando l’intervista è iniziata. Restituiscono, altresì, un’idea poliedrica del fenomeno attraverso più realtà: la prima è quella di una certa élite di provenienza di un cittadino inglese, poi quella più artigianale, in senso stretto, di un contadino che rischiava di non vedere successione nel lavoro e infine quella nell’edilizia che, come dicevo all’inizio, rappresenta davvero i grandi numeri; una storia che è quella di moltissime aziende toscane. 

(Foto da: Pixabay)

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